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Category Archives: Inside

Belli e dannati / WS campaign

INSIDE — BELLI E DANNATI

(potevano essere grandi ma non hanno fatto in tempo a crescere — Progetti e proposte rejected)

WS Campaign — Südtirol

Campagna destinata a sensibilizzare la cittadinanza di Bolzano e Trento sul tema del ruolo delle professioni creative, oggi. In particolare, garantire il giusto rispetto e trattamento a giovani creativi, collettivi, imprese culturali e free-lance in materia di capacità negoziale, equo trattamento retributivo, giusta considerazione professionale e valore aggiunto sociale, economico e culturale. Lo scopo è di portare alla luce un universo spesso sconosciuto (che si muove nell’ombra), attore e promotore di importanti cambiamenti sociali e culturali che spesso interessano tutti, nei centri urbani e in provincia.

Sono ormai molti gli studi (ad esempio, Pier Paolo Pedrini, L’umorismo in pubblicità, Peter Lang) che sostengono che nel campo delle campagne cosiddette sociali (o di sensibilizzazione) la strategia giusta è l’utilizzo di humour, in contrapposizione al fear arousing, che ha lo scopo di provocare nell’osservatore uno stato di ansia o negatività. Perché incoraggia pratiche positive, non colpevolizza e veicola in maniera più efficace il messaggio. Abbiamo deciso quindi di non cadere nel tranello dell’immagine del creativo vessato, sottopagato o invisibile scegliendo di usare un linguaggio ironico,  (sia nel linguaggio che nell’immagine), fortemente legato al luogo di diffusione della campagna e di forte impatto.

L’ironia, si sa, vince. Se a questa si unisce l’appropriazione visiva di un immaginario locale (site specific), l’effetto è ben amplificato. Perché, come già spiegato, non vogliamo puntare sulla drammaticità o su messaggi semplicistici (creativo = professione utile, certo questo chiunque sarebbe disposto a sottoscriverlo), ma su un livello di attenzione visiva e di impatto che possa veicolare altro. L’uso di testimonial, così caro alla pubblicità, viene qui adottato in una prospettiva surreale, distorta e inverosimile. E storica, ma non necessariamente legata al grande mecenatismo, come a dire che sempre c’è stato un rapporto complesso tra società e professioni creative, a qualunque livello e in qualunque contesto. E i nostri testimonial sono personaggi che, in Trentino Alto Adige, sono immediatamente riconoscibili e destano quindi una certa curiosità. Ecco il perché di Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach (Sissi), o di Alcide De Gasperi, o Cesare Battisti, oppure Ötzi. Un’innocua chiamata in causa dalla parte dei creativi altoatesini e trentini.

Ecco quindi che una semplice frase presa da un verosimile contesto quotidiano diventa altro, in un gioco che è esso stesso creativo e divertito, spirito più genuino delle professioni creative e culturali. Una distorsione del senso che è (anche visivamente) un atto ludico. Questa soluzione, presentata come un atto stesso di guerrilla, ha il grande vantaggio di essere immediatamente percepita come tale (dall’occhio dell’osservatore) e di destare quindi massima attenzione al contenuto.

Un trattamento analogo (esemplificato qui su un personaggio ed una frase a lui/lei attribuita) viene applicato agli altri testimonial che popolano la campagna, mediante soluzioni linguistiche e visive (anche nei colori) simili ma sempre diverse (portatori quindi anche di messaggi diversi all’interno della stessa campagna).

Sullo strumento cartaceo (leaflet) o sul sito, ad ogni personaggio può quindi essere associato un messaggio specifico legato ai temi della campagna.

Belli e dannati / Transart

INSIDE — BELLI E DANNATI

(potevano essere grandi ma non hanno fatto in tempo a crescere — Progetti e proposte rejected)

Transart — Festival of Contemporary Culture (Südtirol)

Rilevazione, enumerazione e descrizione, capo per capo, di oggetti, documenti e beni esistenti in un momento determinato in un dato luogo. Inventariare, raccogliere e classificare ciò che è qui e ora è quindi pratica del contemporaneo. Come tavolo di studio e ricerca, come spazio di interpretazione e proposta di un senso ampio.

Questo concetto è alla base della nostra proposta. Perché abbiamo visto in Transart un luogo di raccolta appunto. Non un semplice contenitore, ma un principio organizzatore, di senso. L’idea quindi di interpretare visivamente questo principio ci è sembrata molto stimolante.

Proprio perché dietro una collezione o un inventario vi è un pensiero capace di mettere in relazione oggetti diversi per tipologia e provenienza, con lo scopo di offrire allo spettatore un compendio (non certo esaustivo) di ciò che esiste in un momento determinato in un dato luogo.

Gli elementi che ben interpretano (anche storicamente) il principio dell’inventario
sono le pietre e i minerali, oggetti quasi magici, misteriosi, di estrema bellezza e mai uguali tra loro, di natura terrestre o extra-terrestre. I nostri elementi sono di origine incerta, non riconducibili a categorie geologiche chiare.

E in questo così simili a pratiche ed esperienze del contemporaneo. L’universo visivo che ne nasce è quindi doppiamente interessante: l’utilizzo di un principio novecentesco (l’inventario o la collezione) si unisce ad oggetti futuribili ed extra-terrestri.

Il principio dell’inventario si incarna soprattutto nelle etichette poste sotto i singoli oggetti. Ma a differenza di uno spazio museale o di una collezione, le descrizioni qui presentate rafforzano quel senso di estraneità dell’oggetto che è focus centrale di questa proposta.

Quasi categorie/etichette del contemporaneo stesso. Si tratta di un livello di lettura che non deve necessariamente essere fruibile alla prima osservazione: proprio come in una collezione l’osservatore amatoriale può decidere o meno di approfondire la propria esperienza. Un osservatore/visitatore attento invece, non si farà sfuggire il percorso di lettura qui offerto.

Into the project / GAP

INSIDE

Into the project — GAP

Art residence – A time of reflection, research, presentation and/or production. The individual explore his/her practice within another community; meeting new people, using new materials, experiencing life in a new location. Art residencies emphasize the importance of meaningful and multi-layered cultural exchange and immersion into another culture. They exist in urban spaces, rural villages, and deep in nature.

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La progettazione visiva aveva come obiettivo quello di “dare coerenza ai diversi progetti, unirli in un discorso narrativo e visivo capace di tenere insieme esperienze e pratiche tanto diverse e lontane, sia cronologicamente che geograficamente”. Ciò che comunemente viene considerato necessario nel legame tra graphic design e arte, ovvero un prevalere della seconda sul primo, un organizzare più che connotare, un progettare senza che l’opera d’arte venga coinvolta in un discorso visivo prevaricante, viene qui meno. Non perchè l’opera non fosse al legittimo centro del discorso, ma perchè qui le opere necessitavano di un confronto curatoriale (anche su carta) che ne svelasse le connessioni, l’organicità del progetto rispetto al/i tema/i, il ricondurre le diverse pratiche a un’idea sottintesa al progetto stesso. Abbiamo quindi immaginato la visual identity (e il catalogo) come un’opera parallela, estranea eppure organica, riassuntiva ma non esaustiva.

Anche perchè siamo convinti che si, è vero, l’opera su carta, letta, commentata e ammirata anche in un catalogo, basta a se stessa, su una pagina bianca (esattamente come nel white cube) libera da ogni “decorazione” aggiuntiva che non ne permetta la contemplazione. Ma è anche vero che quell’intermediazione spesso necessaria tra osservatore e artista (curatore/curatrice) può avere un suo esatto specchio nell’auspicabile tramite tra lettore e artista/divulgatore (graphic designer, appunto). Si tratta pur sempre di una partecipazione tra discipline diverse e non certo conflittuali, di un dialogo che, nella migliore delle ipotesi, porta ad un’estensione dell’opera e dello spazio espositivo anche oltre le semplici mura fisiche. Anche perchè l’opera vera può viaggiare meno dell’opera su carta, quindi perchè rinunciare a questa occasione.

Le Residenze/città coinvolte nel progetto GAP 2010 – 2015 diventano spazi, aree, oggetti dai contorni irregolari, proiezione fisica di un agire artistico molto localizzato seppur globale nelle sue forme e metodi. La dimensione geografica diventa quindi il punto nodale di un discorso visivo articolato in nuclei spaziali circoscritti dai confini sociale, culturali e politici del luogo.

Abbiamo estrapolato alcune immagini esemplificative dei diversi percorsi artistici per creare una composizione visiva totemica in grado, attraverso l’oggetto, di rimandare ad una dimensione locale, residenziale, espressione di diverse attenzioni possibili al locale e al particolare. Questa iper-focalizzazione permette quindi agli oggetti di costruire un significato visivo al di là della loro appartenenza progettuale, creando interessanti legami tra i diversi contesti.

Per ogni artista/pagina d’artista abbiamo immaginato un lettering (nell’esposizione del titolo) che potesse racchiudere una visione (necessariamente nostra) dell’opera attraverso una rappresentazione testuale/visiva. Questo ci ha permesso, pur nella coerenza visiva della pubblicazione, di creare degli universi autonomi per ogni singola esperienza.

Don’t miss — Global Art Programme

Brand (new) places

INSIDE

Brand (new) places

Ovvero, “produrre un volto, o un abito, una gestualità, una mimica cittadina costruita, nuova, adatta ai tempi, adeguata, una sorta di galateo nei confronti del cittadino/utente” (Giovanni Anceschi, L’interfaccia delle città, 1994), oppure “indagare sulle cosiddette superfici d’uso urbane e sugli strumenti che una città dovrebbe adottare per costruire la propria corporate image system, come una fermata d’autobus, la segnaletica civica, ma anche un modulo dell’anagrafe comunale e in generale tutti quegli elementi che servono da tramite comunicativo tra l’Istituzione, il cittadino e il mittente. La superficie d’uso è costituita da tutti quegli oggetti che appartengono alla città, che la rendono accessibile e che ne comunicano il significato all’utente, sia esso interno o esterno all’ambiente” (Jean Marie Floch, Identità visive. Costruire l’identità a partire dai segni, 1997).

Visit Finland / sekdesign.fi

Prendete esempi come Melbourne, Berlino (Be Berlin) o Amsterdam (I Amsterdam). Sono esempi che hanno fatto scuola per coerenza, efficacia e soprattutto per un’attenta gestione del brand, che, sembrerà un’ovvietà, quando si parla di città di milioni di abitanti con interessi molto diversi (turistici, sociali, economici, culturali, politici) non è un fattore secondario. In Italia la situazione appare diversa.

Difficile capire chi debba incarnare la cabina di regia di simili operazioni (le Aziende di promozione turistica? Il Comune?) dal momento che raramente esistono (e funzionano) tavole rotonde aperte ai principali soggetti (interessi) cittadini in grado di organizzare e coadiuvare simili operazioni.

Difficile che un Comune italiano medio o grande abbia coscienza (e i dati, le linee strategiche, gli assetti urbanistici) di ciò che un brand dovrebbe incarnare, quale scopo perseguire, quali fattori urbani e sociali innescare e potenziare.

Perchè si tratta di processi pluriennali (la durata minima è lo spazio di una legislatura comunale) sui quali tutti i soggetti sensibili (che siano le associazioni no profit, le Fondazioni teatrali, le strutture preposte ad attrarre investimenti, ecc.) sarebbe opportuno potessero intervenire, è facile immaginare come questo sforzo collettivo debba essere gestito senza forzature, anche a fronte del considerevole investimento economico e lavorativo che richiede (che va ben oltre la creazione di un logo).

Ma il city branding può essere molto utile: può riuscire dove l’urbanistica e l’architettura purtroppo non possono (in Italia), creando spazi sociali nuovi e fluidi, ridefinendo uno stile che la città intera può sentire come proprio e sul quale far convergere nuovi slanci e potenzialità.

Può riuscire a dare un nuovo senso di comunità. E, percepito dall’esterno, la città può sembrare una buona destinazione per le vacanze, per studiare, investire o vivere.

Abbiamo affrontato un progetto simile con un Comune medio e possiamo, dall’esperienza sul campo, tracciare alcune best practices e alcune criticità che vi suggeriamo di tenere a mente, valide per chi commissiona il lavoro e per chi lo prende in carico:

The more is discussed,
the best you’ll face the crossfire

+ Attenzione alla distinzione tra city branding e corporate image del Comune o della Pubblica Amministrazione. Le due cose sono molto diverse. Nel primo caso il processo è più lungo e complesso perchè coinvolge tutti i soggetti cittadini e punta a creare un brand per l’intera città, nel secondo caso è il Comune o la Pubblica Amministrazione (e quindi il Sindaco, la Giunta, i dipendenti comunali, ecc.) e il modo in cui presenta ad essere al centro del discorso.  In molti progetti i piani sono confusi (il Comune che coincide con la città) creando enormi problemi poi nella gestione degli step di approvazione e veicolazione del progetto.

+ Provate ad adottare un approccio partecipativo. Questo approccio affonda le radici nella psicoanalisi e nella gestione in gruppo dei problem setting e dei problem solving (gli alcolisti anonimi o chiunque abbia dipendenze forti sa cosa vuol dire confrontarsi col gruppo e prendere decisioni insieme). Ha una gloriosa storia alle spalle e una vastissima letteratura: si va dal partecipatory design (degli anni ’60 e ’70, dove l’utente era politicamente coinvolto partecipando alla realizzazione del prodotto finale) al partecipatory video. Quindi la creazione di un gruppo di lavoro allargato che valuti e discuta le varie prospettive adottate è un ottimo modo per non far calare dall’alto decisioni che sarebbero sicuramente recepite in maniera ostile (come tutti i cambiamenti non annunciati).

+Infine, ricordate che un buon city branding deve essere efficace sia nelle mani del miglior designer sia nelle mani del più informaticamente e visivamente analfabeta. Nell’uso sarà sempre diverso da ciò che immaginavate (e da ciò che avete tassativamente proibito nel Manuale). Occorre dare al logo/visual identity massima flessibilità e semplicità di utilizzo. Il che non significa che debba essere povera o visivamente banale, ma deve saper adattarsi a tutto e a tutti, sempre e senza creare troppi problemi. E, vale per i designer, aspettatevi sempre domande su cose che pensavate ovvie, raramente siamo in grado di sapere spiegare bene i risultati del nostro lavoro. Quindi dettagliate tutto, spiegate, scrivete, presentate, divulgate fino alla nausea perchè non sarà mai sufficiente.

In pratica, quando si affronta un progetto di re-brand urbano le variabili e gli elementi da considerare sono innumerevoli, la maggior parte dei quali non emergeranno se non in corso d’opera o addirittura a distanza di anni. Perchè nessuna città (media o grande, quelle piccole non sembrano toccate dal fermento del city branding) o amministrazione pubblica può essere pronta a ri-definire se stessa in modo così radicale e strutturato da rendere il processo fluido o perfettamente governabile.

Anche qui, come per tutto, c’è un caso Italia e un caso internazionale, alcune possibili best practice e alcune forti criticità sia teoriche che operative, molto buon senso e moltissimi rischi.

Think Minsk / instid.org

+ Attenzione ad avere ben chiaro chi sono gli interlocutori e i soggetti da coinvolgere. Poiché ogni passaggio è fondamentale (il processo è progressivo, si costruisce su quanto si decide nello step precedente) è bene aver chiaro fin da subito un iter metodologico condiviso per l’approvazione e presentazione dei vari materiali. Chi decide? Come? In che modo si possono dare per assodate determinate scelte? Tra le diversissime opinioni che sorgeranno chi può fare sintesi e quindi dettare una linea adatta alle reali esigenze? Altrimenti metterete in discussione tutto ogni qualvolta emergerà una nuova opinione o un nuovo soggetto che non si era considerato.

+ Fissate degli step graduali di presentazione del progetto e dei materiali, di rilascio dei materiali (è impossibile sostituire tutto subito e ovunque) dando priorità e obiettivi. Se il progetto riguarda un Comune potreste ad esempio, creare una mailing list per i dipendenti comunali con la quale informate periodicamente sull’andamento del progetto e  sull’adozione dei materiali. Se riguarda una città ricordate che stakeholder, soggetti coinvolti, ecc. devono essere costantemente informati su tutto. Il rischio è che un soggetto non coinvolto e non informato (ma che avrà a che fare con i nuovi materiali) diventi un potenziale nemico del progetto. Addetti stampa molto attenti, evitate l’effetto lapidazione: se presentate un logo mai visto (o un progetto mai condiviso) sarete massacrati dal fuoco incrociato del Quanto è costato? Perchè quel colore? Chi l’ha fatto? Chi ha deciso?

Porto / whitestudio.pt

Guardate oltre. Ci sono città europee (anche piccole o marginali) che hanno basato il proprio brand sull’essere città gay friendly o eco sostenibile al 100%. Mettere in piedi un progetto così per promuovere il sole, il mare, le chiese rinascimentali e la buona tavola non è una buona idea. Al massimo attirerà le simpatie di qualche coppia olandese amante dell’Italia (che verrebbe comunque perchè ci viene da dieci anni) ma non sposterete di un millimetro il barometro dell’interesse nazionale e internazionale. Osate e ridefinite ciò che la città è, oggi, pensate a quanto multiculturale e accogliente può essere, a quali locali e quali attrattive può avere per un giovane francese, quali festival e manifestazioni nuove potete proporre al mondo. Allora si che avrà senso ri-definire un’immagine (oltre il secolare stemma araldico).

5 buoni consigli (se hai ricevuto il nostro portfolio)

INSIDE

5 buoni consigli (se hai ricevuto il nostro portfolio) — This is a graphic design portfolio self promotion

Hai ricevuto il nostro portfolio? Bene, sfoglialo, leggilo, guarda attentamente tutte le immagini e studialo scrupolosamente (e magari contattaci) .. Ma ricorda, non è necessario trattarlo con troppa cura, noi ti diamo 5 ottimi metodi di downshifting da applicare! This is a graphic design portfolio self promotion .. Do you like our portfolio? Read it, watch it closely in every detail, but it’s not necessary to treat it with too much care, we give you 5 great downshifting methods to apply!

1 / Un perfetto cono porta crocchette di pollo 

(max 6 coni grandi + 6 coni piccoli / oppure 24 coni piccoli)

2 / Una lettera anonima

(con una cura invidiabile del dettaglio tipografico)

3 / Una tovaglietta per sdrammatizzare il sevizio di zia 

(e anche i centrini all’uncinetto)

4 / Pacchetti regalo esclusivi

5 / Una girandola

(perchè l’estate è vicina)

Musica classica e comunicazione visiva

INSIDE

Musica classica e comunicazione visiva

Nella percezione comune la musica classica è genere d’èlite, vecchio, statico, verboso, che poco si presta alla condivisione dell’esperienza (ad esempio tra amici). Tutto vero. O almeno questo sembra essere ciò che la classica oggi comunica (dato che la storia dell’arte spesso è storia della percezione e fruizione dell’arte). Di fronte a certe modalità di comunicazione, adottate dal 90% degli enti e fondazioni preposte alla diffusione della cultura musicale classica, è davvero difficile non dire “ovunque, ma non a concerto”. Alla base c’è un problema di disaffezione (o totale anafettività) giovanile e non, in punta c’è una dimenticanza collettiva (e politica, quando le orchestre cadono come mosche), affiancata dall’incapacità manifesta di molti soggetti, preposti alla divulgazione musicale.

# Contemporary practice / Studio Dumbar

# Radical practice / Sara Westermann, à Volta do Barroco (Casa da Musica)

+ I contenuti sono tutto, ma davvero tutto. Citiamo Nick Boaden (Head of marketing del West Yorkshire Playhouse): Non siamo nel business del “persuadere” le persone a vedere qualcosa dalla quale non possono ricevere nulla. Questo non aiuta nessuno. Lavoriamo con del materiale bellissimo ma spesso non sappiamo come raccontarlo. È davvero difficile trovare narrazioni interessanti a tema classico, qualcosa che racconti l’universo di una sinfonia, di un compositore, di un contesto storico e culturale. Le recensioni e le critiche spesso elencano freddamente nomi, date, storiografia e poco altro. Questo è tutto ciò che l’universo musicale ha da dire? Non sarebbe più interessante raccontare come Schubert ha scritto la Sinfonia Unvollendete, quale stato d’animo ha infuso nelle note e perchè? Fornire quindi un orientamento all’ascolto che non sia solo storiografico. Sarebbe come liquidare l’esperienza pittorica di Pollock con autore, data, tecnica esecutiva, conservazione dell’opera, scelta che non credo spingerebbe migliaia di persona a visitare una mostra.

+ La comunicazione musicale soffre di troppe mediazioni tra il pubblico e il messaggio: non basta la già citata fotografia a rappresentare l’esperienza.

Se la comunicazione è all’altezza del compito (contemporanea, chiara, diretta, curata e ben pensata) deve parlare al target spingendolo a diventare pubblico. Segmentare la comunicazione a seconda del target e del bacino è utilissimo.

Strumenti a livelli di approfondimento diverso, multi canale, in grado di veicolare messaggi diversi per target diversi (sotto l’ala di una comunicazione integrata e coerente). E non troppe informazioni, poche.

Ecco il tema del discorso: comunicare la musica classica. Che sembra l’unica tra tutte le arti (e non sono poche) a non aver mai fatto i conti con le trasformazioni in atto (nell’industria culturale, nella percezione e nella fruizione). Schubert sarà sempre Schubert, siamo d’accordo, ma la forma in cui Schubert viene percepito, ascoltato, divulgato, proposto? Sono davvero poche le riflessioni sull’argomento, spesso riassumibili in una triste scrollata di spalle (anche a ragione) contro l’ignoranza collettiva e il tradimento subito.

Noi, dalla semplice osservazione del presente, proviamo ad avanzare qualche considerazione, strettamente legata al nostro ambito, senz’altro molto marginale e tutt’altro che esaustivo.

+ Accanto alla sempiterna foto dell’orchestra (o del quartetto in posa) spiccano (ancora!) delle font con mille grazie, cosiddette eleganti, possibilmente in colori dorati e argentati, con sfondi in velluto rosso. Che sembrano snobbare con sdegno qualunque contributo (e messaggio) Schubert possa dare alla contemporaneità. Questo genere di comunicazione può essere efficace e rassicurante per un target già ampiamente acquisito, siamo d’accordo, ma dice anche molto (e dice cose poco lusinghiere) sul modo in cui l’Ente promotore considera attuale il messaggio schubertiano o mahleriano.

+ La musica classica, a causa di questo accanimento, possiede un repertorio visivo molto debole e ristretto dove ogni spazio di sperimentazione sembra morire sotto i colpi della tradizione (che si ostina a pensare che un pianista fotografato in primo piano sia sufficiente a suscitare“emozione”). Perchè non si possono utilizzare nuovi messaggi e canoni estetici per comunicare la musica? Perchè, in Italia, non sembra possibile lavorare attraverso metafore, elementi astratti, suggestioni visive? Forse perchè quello italiano è pubblico conservatore? Perchè nessuno sembra disposto a fare qualche piccolo compresso, proprio piccolo, giusto qualche esperimento per tentare di non intrappolare la divulgazione musica in una torre d’avorio?

mantovachamber

# Inter nos practice / Suqrepubliq, Mantova Chamber Music Festival 2013

 

“L’elemento del gioco, del movimento, della contorsione ludica, dell’unire cultura alta e cultura popolare è sempre stato patrimonio del lessico musicale, quindi abbiamo trovato giusto rendere visivamente questa dimensione come chiave di lettura della musica classica oggi”    

+ Dal punto di vista visivo abbiamo notato che una certa sperimentazione viene vissuta come riduttiva o addirittura fuorviante rispetto all’esperienza musicale. Come se la comunicazione potesse sovrastare l’opera e snaturarne l’impatto. Ma è ovvio che non sia così. La scelta di un colore, di un tema visivo, di una font può certamente spingere qualcuno (prima) a riconsiderare la propria opinione sull’anzianità del messaggio mahleriano, ma non può certo (durante) impedire a quella stessa persona di apprezzarne l’impeccabile esecuzione. Anzi, una comunicazione visiva che sappia trascinare Mahler verso la contemporaneità (unita ad un messaggio adeguato) non può che fare del bene alla diffusione e alla comprensione del repertorio musicale. Si tratta di adottare anche per la musica prospettive di storytelling che sappiano attualizzare il messaggio musicale.

A tentare non si perde nulla, ma si ha forse qualcosa da guadagnare.

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INSIDE

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#1 SALONICCO

Thessaloniki’s esplanade /
October 2011

#2 TUNISI

Unknown portrait, Tunis /
April 2010

#3 KASSEL

J. Borofsky – Man walking to the sky
/ September 2012